Medusa e la violenza sulle donne - di Stefania Lucchetti
Nell'ombra del racconto, il confine tra l'umano e il mostro è svanito
Immagine: Scudo con testa di Medusa, Caravaggio,1598 ca., Galleria Uffizi Firenze
“Nel tuo tempio, Dea, ho cercato rifugio / anelando solo pace nelle mie preghiere”
Estratto dalla poesia “Medusa” (Macchie di caffé sui miei libri, Stefania Lucchetti, Albatros 2024)
Medusa è una poesia della mia raccolta che offre voce alla omonima figura mitologica, raccontandone la storia di dolore, ingiustizia e resistenza. Medusa non è nata mostro: è una donna, una sacerdotessa, una vittima di un destino crudele e ingiusto. Medusa subisce violenza tre volte. La prima da Poseidone, che invade il tempio di Atena violando il suo corpo e la sua pace. La seconda da Atena stessa, Dea che avrebbe dovuto proteggerla ma che invece la punisce, trasformandola in mostro. La terza dalla società, incarnata nell’eroe Perseo, che la condanna senza ricordare la sua storia, vedendola solo come una creatura da temere e annientare.
“Tu non mi hai protetta, Dea portentosa,
e mi hai invece trasformata in una creatura spaventosa.”Estratto dalla poesia “Medusa” (Macchie di caffé sui miei libri, Stefania Lucchetti)
La ragione dietro a questa mia scelta risale ad una riflessione che è spesso nei miei pensieri e che mi sembra adeguata al tema di questa settimana.
Medusa è una poesia dedicata alla violenza sulle donne e ai suoi effetti nel lungo termine.
Non è sempre evidente quando si parla di violenza contro le donne che le vittime vengono, talvolta, sostenute nell’immediato (non sempre, e si spera che ciò accada sempre di più in questo periodo storico maggiormente cosciente). Tuttavia quando il trauma lascia segni profondi, nel medio e lungo termine, il tempo e la società dimenticano e frequentemente le stesse vittime diventano bersagli di giudizio o di esclusione. Le violenze subite lasciano tracce in traumi ed espressioni di dolore, emotivo e fisico. Queste tracce diventano con il tempo, agli occhi degli altri, “mostruosità”. Le difficoltà che in concreto una persona che ha subito violenza affronta la trasformano e la rendono invisibile o inaccettabile agli occhi di una società che ama il sensazionalismo ma poi preferisce guardare altrove quando si trova davanti una persona che ha sofferto un’ingiustizia e sta lottando per gestirne le conseguenze concrete. Spesso queste conseguenze riguardano la propria persona, la capacità di interagire con il mondo, una lunga depressione, una difficoltà a lavorare o relazionarsi con leggerezza. Ancora più drammaticamente, queste conseguenze a volte riguardano i figli (tema complesso su cui non mi è possibile dilungarmi in questa sede).
“Ho desiderato silenzio, lontano dallo sguardo dell’umanità
per sopportare la mia pena in silenziosa disperazione
per portare il peso della mia forma mostruosa
senza sopportare affronti e mortale confusione”
Estratto dalla poesia “Medusa” (Macchie di caffé sui miei libri, Stefania Lucchetti)
La poesia riflette sull’ingiustizia profonda subita da Medusa: non solo vittima di violenza, ma anche punita per qualcosa che non ha potuto controllare. La sua trasformazione in mostro diventa il simbolo della stigmatizzazione delle vittime, di quel marchio indelebile che la società spesso impone su chi ha già sofferto. La grotta dove Medusa si rifugia non è solo un luogo geografico, è un luogo di isolamento, simbolo del silenzio a cui sono costrette tante vittime, lasciate sole a convivere con il loro dolore.
Nemmeno questo isolamente è tuttavia rispettato. Perseo arriva come rappresentante di una società che non vede più l’umano dietro la maschera del “mostro”, ma solo un trofeo da conquistare. È un’immagine potente e tragica: una donna perseguitata dal destino, punita per colpe che non ha, e infine uccisa da chi cerca di dimostrare il proprio valore a spese del suo dolore.
Medusa è un invito a guardare oltre le apparenze, a riconoscere il dolore invisibile e a sfidare i giudizi superficiali. Ad ascoltare una storia, ad aiutare qualcuno ad uscire dalla propria grotta.
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